23 maggio, 2007

LUCREZIO DESCRIVE L'ATTO D'AMORE...

Lucrezio, IV, 1073-1120

Né si priva dei frutti di Venere colui che evita l’amore, ma piuttosto coglie le gioie, senza il dolore. Da lì di certo viene un piacere più puro per chi sa moderarsi, che per i folli d’amore.
Infatti, nell’attimo stesso di impossessarsi dell’altro, fluttua l’ardore degli amanti, tra mille incertezze toccandosi il corpo, senza decidere se primi gli occhi o le mani debbano godere.
Si avvicinano, premono i corpi l’uno sull’altro, stretti, si fanno male, e spesso si mordono coi denti le labbra, e vi imprimono baci, perché il piacere non è puro, e oscuri stimoli li portano a fare del male proprio all’oggetto d’amore, qualunque esso sia, da cui sorgono i germi di tanta follia.
Ma con leggerezza Venere, nell’atto stesso d’amore, allevia le pene, e il dolce piacere stempera la crudeltà dei morsi. In questo consiste la loro speranza, che proprio il corpo, da coi origina la fiamma dell’amore, possa anche spegnerlo.
Ma questo non è dato in natura: questa è l’unica cosa che, quanta più ne possiedi, tanto più il cuore arde di una cupidigia che non dà tregua.
Cibo e bevande sono assimilati dal corpo: e poiché possono riempire certe parti, si placa perciò facilmente il desiderio di bere e mangiare.
Invece, dell’aspetto, del bel colorito, non è dato agli uomini di godere se non di immagini sottili; immagini che spesso al vento rapisce la speranza delusa.
Come quando, assetati, si cerca di bere nel sonno, ma acqua vera non c’è, che possa spegnere l’ardore delle membra, e allora si va verso miraggi, si pena invano, finché, bevendo in mezzo a un fiume che scorre copioso, ma in sogno, si muore di sete: così in amore Venere illude gli amanti con simulacri, e di fronte al corpo tanto amato, non riescono a saziarsi di sguardi, né con le mani possono strappare alcunché dalle tenere membra, toccando qua e là, impotenti.
E infine quando congiungono le membra e assaporano il fiore della giovinezza, quando ormai i corpi pregustano il godimento supremo, ed è giunto il momento in cui Venere semina i campi della donna, avidamente i corpi si premono, si mescolano le salive, succhiandole, mordono coi denti le labbra: ma tutto è inutile, poiché nulla possono strappare da lì, né compenetrarsi, né dissolversi l’uno nell’altro. Sembra che a volte vogliano farlo, sembra che lottino, a tal punto impigliati nei lacci di Venere, finché le membra, sfinite dalla forza violenta del piacere, giacciono abbandonate.
Quando, alla fine, erompe la voglia raccolta nei nervi, per un po’ c’è una piccola tregua all’ardore; ma poi, identica, torna la furia, ritorna la stessa pazzia, poiché cercano quello che bramano senza davvero sapere cos’è, e non sanno trovare un sistema che possa liberarli dal male: perciò, inconsapevoli, li consuma la loro ferita invisibile.

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