PLATONE, Fedro, 276 a-c
FEDRO: anche questo hai detto bene
SOCRATE: e che? Esaminiamo adesso un altro tipo di discorso, fratello legittimo di questo, sia in che modo nasce, sia quanto è migliore e più efficace di questo?
FE: qual è questo tipo di discorso, e come dici che nasce?
SO: quello che viene scritto con la vera scienza nell’anima di chi apprende, che è capace di difendere se stesso, che conosce quelli a cui deve parlare, e quelli a cui tacere.
FE: intendi dire che il discorso di chi sa è vivo e dotato di coscienza, e rispetto a questo si potrebbe dire giustamente che quello scritto è una semplice immagine.
SO: assolutamente sì; dimmi, ora: il contadino assennato, a proposito dei semi di cui si prende cura e da cui desidera che nascano piante che daranno frutti abbondanti, seminandoli con cura ma in piena estate, nei giardini di Adone, si potrebbe rallegrare di vederli germogliare rigogliosi nel giro di otto giorni, oppure farebbe questo in ossequio alla tradizione legata alla festa, quand’anche lo facesse; mentre per i semi di cui si occupa seriamente, applicando tutta la sua esperienza di agricoltore, seminandoli in terreno adatto, godrebbe nel vedere che quello che ha seminato è giunto a maturazione in otto mesi?
FE.: probabilmente è così, Socrate: in questo caso si comporterebbe in modo serio, nel primo diversamente da come dici tu.
SO.: diremo allora che colui che è a conoscenza del giusto, del bello e del buono pone meno attenzione, rispetto al contadino, ai propri semi?
FE.: no, assolutamente.
SO.: allora di certo non li scriverà con attenzione nell’acqua nera, seminandoli con il calamo, usando parole incapaci di difendersi da sole usando il ragionamento, incapaci di insegnare la verità in modo adeguato.
FE.: certo, non è verisimile.
SO.: no, certo: ma, a quanto pare, seminerà e scriverà i giardini delle lettere per gioco, quando mai voglia farlo, accumulando, come un tesoro, i suoi ricordi, in vista del tempo della vecchiaia –e dell’oblio (quando ci arriverà), per sé e per chiunque vorrà seguire le sue tracce, e sarà contento quando li vedrà crescere teneri e fragili. E mentre altri si danno a passatempi puerili, soddisfacendo la propria sete con simposi e altre attività sorelle di queste, allora quello, com’è verisimile, invece che con queste occupazioni, passerà il tempo giocando con ciò di cui parlavo prima.
FE.: parli di un gioco bellissimo, Socrate, contrapposto a uno svago senza senso, quello di chi è in grado di giocare con le parole, raccontando storie sulla giustizia e su tutte le altre cose di cui parli.
SO.: certo, Fedro, è proprio così. Ma credo che ci sia un’attività ben più seria di questa: quando qualcuno, servendosi dell’arte della dialettica, in compagnia di uno spirito adatto, coltiva e semina discorsi elaborati con scienza, che sono capaci di aiutare se stessi e colui che li ha piantati, e non sono destinati a rimanere sterili, ma contengono semi da cui altri discorsi nascendo in altre anime saranno capaci di rendere questo seme immortale, rendendo felice in massimo grado colui che lo riceve, per quanto sia possibile ad un uomo essere felice.
Il Fedro si apre con un discorso scritto che vuole farsi “orale” senza riuscirci (col maldestro Fedro che tenta invano di nascondere sotto il mantello l’originale del discorso di Lisia); si chiude con la storia della nascita della scrittura, liquido seme che si perde come un gioco da bambini, mentre l’unico bene che riesce a valicare la dimensione fragile ed effimera dell’uomo è la semina nel terreno fertile dei propri simili.
Ma il Fedro è anche la sconfessione del magico mythologein. Mythos che affascina, affabulatoria dimensione della conoscenza, che nel libro (di Platone) trova la sua dimensione privilegiata e il suo limite dichiarato.
Contempliamo solo gli umbratili giardini di Adone: alle piante in pieno campo del contadino Platone l’accesso è precluso.
25 maggio, 2007
23 maggio, 2007
LUCREZIO DESCRIVE L'ATTO D'AMORE...
Lucrezio, IV, 1073-1120
Né si priva dei frutti di Venere colui che evita l’amore, ma piuttosto coglie le gioie, senza il dolore. Da lì di certo viene un piacere più puro per chi sa moderarsi, che per i folli d’amore.
Infatti, nell’attimo stesso di impossessarsi dell’altro, fluttua l’ardore degli amanti, tra mille incertezze toccandosi il corpo, senza decidere se primi gli occhi o le mani debbano godere.
Si avvicinano, premono i corpi l’uno sull’altro, stretti, si fanno male, e spesso si mordono coi denti le labbra, e vi imprimono baci, perché il piacere non è puro, e oscuri stimoli li portano a fare del male proprio all’oggetto d’amore, qualunque esso sia, da cui sorgono i germi di tanta follia.
Ma con leggerezza Venere, nell’atto stesso d’amore, allevia le pene, e il dolce piacere stempera la crudeltà dei morsi. In questo consiste la loro speranza, che proprio il corpo, da coi origina la fiamma dell’amore, possa anche spegnerlo.
Ma questo non è dato in natura: questa è l’unica cosa che, quanta più ne possiedi, tanto più il cuore arde di una cupidigia che non dà tregua.
Cibo e bevande sono assimilati dal corpo: e poiché possono riempire certe parti, si placa perciò facilmente il desiderio di bere e mangiare.
Invece, dell’aspetto, del bel colorito, non è dato agli uomini di godere se non di immagini sottili; immagini che spesso al vento rapisce la speranza delusa.
Come quando, assetati, si cerca di bere nel sonno, ma acqua vera non c’è, che possa spegnere l’ardore delle membra, e allora si va verso miraggi, si pena invano, finché, bevendo in mezzo a un fiume che scorre copioso, ma in sogno, si muore di sete: così in amore Venere illude gli amanti con simulacri, e di fronte al corpo tanto amato, non riescono a saziarsi di sguardi, né con le mani possono strappare alcunché dalle tenere membra, toccando qua e là, impotenti.
E infine quando congiungono le membra e assaporano il fiore della giovinezza, quando ormai i corpi pregustano il godimento supremo, ed è giunto il momento in cui Venere semina i campi della donna, avidamente i corpi si premono, si mescolano le salive, succhiandole, mordono coi denti le labbra: ma tutto è inutile, poiché nulla possono strappare da lì, né compenetrarsi, né dissolversi l’uno nell’altro. Sembra che a volte vogliano farlo, sembra che lottino, a tal punto impigliati nei lacci di Venere, finché le membra, sfinite dalla forza violenta del piacere, giacciono abbandonate.
Quando, alla fine, erompe la voglia raccolta nei nervi, per un po’ c’è una piccola tregua all’ardore; ma poi, identica, torna la furia, ritorna la stessa pazzia, poiché cercano quello che bramano senza davvero sapere cos’è, e non sanno trovare un sistema che possa liberarli dal male: perciò, inconsapevoli, li consuma la loro ferita invisibile.
Né si priva dei frutti di Venere colui che evita l’amore, ma piuttosto coglie le gioie, senza il dolore. Da lì di certo viene un piacere più puro per chi sa moderarsi, che per i folli d’amore.
Infatti, nell’attimo stesso di impossessarsi dell’altro, fluttua l’ardore degli amanti, tra mille incertezze toccandosi il corpo, senza decidere se primi gli occhi o le mani debbano godere.
Si avvicinano, premono i corpi l’uno sull’altro, stretti, si fanno male, e spesso si mordono coi denti le labbra, e vi imprimono baci, perché il piacere non è puro, e oscuri stimoli li portano a fare del male proprio all’oggetto d’amore, qualunque esso sia, da cui sorgono i germi di tanta follia.
Ma con leggerezza Venere, nell’atto stesso d’amore, allevia le pene, e il dolce piacere stempera la crudeltà dei morsi. In questo consiste la loro speranza, che proprio il corpo, da coi origina la fiamma dell’amore, possa anche spegnerlo.
Ma questo non è dato in natura: questa è l’unica cosa che, quanta più ne possiedi, tanto più il cuore arde di una cupidigia che non dà tregua.
Cibo e bevande sono assimilati dal corpo: e poiché possono riempire certe parti, si placa perciò facilmente il desiderio di bere e mangiare.
Invece, dell’aspetto, del bel colorito, non è dato agli uomini di godere se non di immagini sottili; immagini che spesso al vento rapisce la speranza delusa.
Come quando, assetati, si cerca di bere nel sonno, ma acqua vera non c’è, che possa spegnere l’ardore delle membra, e allora si va verso miraggi, si pena invano, finché, bevendo in mezzo a un fiume che scorre copioso, ma in sogno, si muore di sete: così in amore Venere illude gli amanti con simulacri, e di fronte al corpo tanto amato, non riescono a saziarsi di sguardi, né con le mani possono strappare alcunché dalle tenere membra, toccando qua e là, impotenti.
E infine quando congiungono le membra e assaporano il fiore della giovinezza, quando ormai i corpi pregustano il godimento supremo, ed è giunto il momento in cui Venere semina i campi della donna, avidamente i corpi si premono, si mescolano le salive, succhiandole, mordono coi denti le labbra: ma tutto è inutile, poiché nulla possono strappare da lì, né compenetrarsi, né dissolversi l’uno nell’altro. Sembra che a volte vogliano farlo, sembra che lottino, a tal punto impigliati nei lacci di Venere, finché le membra, sfinite dalla forza violenta del piacere, giacciono abbandonate.
Quando, alla fine, erompe la voglia raccolta nei nervi, per un po’ c’è una piccola tregua all’ardore; ma poi, identica, torna la furia, ritorna la stessa pazzia, poiché cercano quello che bramano senza davvero sapere cos’è, e non sanno trovare un sistema che possa liberarli dal male: perciò, inconsapevoli, li consuma la loro ferita invisibile.
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